ALMA MATER STUDIORUM
UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
DIIPARTIMENTO DI SCIENZE DELL'EDUCAZIONE
"G. M. BERTIN"

Gina Fasoli 1905 - 1992

Biografia


Bibliografia

Catania, Palazzo dell'Università, 12 giugno 1955. Da sinistra: Giovanni Maria Bertin, Gina Fasoli, Nino Torrisi, Carmelina Naselli Bologna, Facoltà di Magistero, 1970. Seduta di lauree Bologna, Archiginnasio. 28 febbraio 1987. Il Sindaco di Bologna Renzo Imbeni conferisce l’«Archiginnasio d’oro» a Gina Fasoli


Gina Fasoli è nata a Bassano il 5 giugno del 1905. Apparteneva a quella che si definiva una "buona famiglia": il padre Arturo, ingegnere civile laureatosi a Padova nel 1902, aveva al suo attivo studi per lo sfruttamento dell’energia idraulica, la progettazione e la realizzazione dell’acquedotto di Mestre e di quello consorziale dell’altipiano di Asiago, quando il 10 giugno del 1906, non ancora ventisettenne, un’infezione da cibo guasto lo sottrasse alla famiglia e alla giovane sposa, Adele Pozzato, che da un anno gli aveva dato la figlia Luigina. Anche la famiglia materna aveva tradizioni borghesi assai radicate: il nonno Francesco Pozzato, assessore al comune, nel 1895 era stato uno dei sostenitori della costruzione dell’acquedotto di Bassano, una decisione importante che consentì un salto di qualità nella vita cittadina, coma dimostra il calo della mortalità infantile che seguì quella deliberazione. Il bisnonno Sante era titolare di uno stabilimento tipografico, erede della tradizione remondiniana, dove sono state stampate anche opere impegnative.
L’ambiente familiare e quello delle amicizie aveva favorito le naturali doti di intelligenza, volontà e acutezza di Gina Fasoli, nell’austerità di un’educazione cattolica che individuava nel lavoro e nell’impegno l’esaltazione non solo dei principi cristiani, ma anche di quelli laici, e che al contempo considerava un valore primario l’autonomia del pensiero e del giudizio individuale.
L’istruzione elementare si è svolta in ambito familiare e privato per non esporre una bambina ritenuta gracile di bronchi ai rischi del contagio per la frequenza di luoghi affollati. Il ginnasio, raggiunto a nove anni, grazie agli ottimi risultati conseguiti, lo ha frequentato presso il Liceo di Bassano, dove ha trovato un contesto sociale non troppo diverso da quello conosciuto, poiché era frequentato dai figli dei parenti e degli amici che frequentavano la casa dei nonni. La presenza di una bambina in un tipo di scuola, che generalmente si ritiene frequentata da ragazzi, non deve stupire troppo, perché le aperture verso la formazione culturale femminile erano, anche in quei primi decenni del nuovo secolo, una realtà che cominciava proprio allora a prendere corpo nel Paese, non esclusa Bassano, città che vantava una tradizione culturale assai vivace.
Le fatiche che esigeva un ginnasio selettivo, come era quello di allora, non turbarono minimamente la bambina, che ebbe la fortuna di aver in sorte un insegnante ben preparato — era un giovane sardo, Vincenzo Tedesco, che avrebbe conseguito poco dopo la libera docenza in filologia romanza — di cui conservò un ricordo molto vivo. Di quegli anni però, da adulta, ricordava non tanto le difficoltà della scuola, quanto le correnti gelide, le soste senza cappotto nel chiostro del convento in cui era situato il Liceo in attesa di entrare in aula, il rischio di prendersi malattie da raffreddamento, in un’epoca che ancora non conosceva antibiotici e penicillina.
Certo che fu proprio in quegli anni bassanesi che maturò la sua vocazione di storico e in particolare di storico medievista, alimentata dai racconti su Ezzelino da Romano, eroe negativo, personaggio terribile e grande che segnò in maniera determinante la storia di quelle regioni. Il luogo e il tempo del manifestarsi di quella vocazione erano ben presenti alla sua mente, anche se circoscritti e soffusi dal ricordo di una casa — la casa dei nonni di Sedea — che rappresentò per tutta la vita il suo paradiso perduto.
Gli avvenimenti tragici vissuti all’epoca della disfatta di Caporetto hanno avuto conseguenze rilevanti anche per Gina Fasoli, poiché insieme alla madre si trasferì a Bologna, non solo per sfuggire ai pericoli dell’esercito nemico avanzante, ma anche in vista del completamento degli studi della giovane.
Nonostante il trasferimento a Bologna, la sua presenza a Bassano avrebbe pur tuttavia assunto la regolarità della cadenza annuale delle vacanze estive, in un legame con la propria terra d’origine che non ha mai conosciuto incrinature, anzi, la sua esistenza appariva quasi sdoppiata in conseguenza dei suoi trasferimenti estivi a Bassano, tanto che quando parlava della sua vita in generale, passata o presente, quello che faceva a Bologna, da studente poi da professore durante i nove mesi della vita accademica, apparteneva ad una sfera diversa da quello che accadeva a Bassano, durante i tre mesi estivi.
Completati gli studi superiori al Liceo Classico Minghetti di Bologna, nel 1922, a diciassette anni, si iscrisse alla Facoltà di Lettere dell’Ateneo bolognese. Degli studi universitari, completati a giugno del quarto anno, mantenne un ricordo vivo, che espresse, con un segno di sentita gratitudine nei confronti dei suoi maestri, nel 1986, in occasione di alcune riflessioni autobiografiche, nelle quali, più che ottuagenaria, cominciava a fare i conti con la propria vita.
Fra i maestri dell’Università che ricordava con maggior gratitudine ci fu Raffaele Petazzoni che aveva potuto seguire per un solo anno in un corso sulle religioni misteriche. Ne aveva ricavato aperture non prima conosciute, poiché quelle lezioni avevano fatto scoprire ai suoi studenti come il problema della purificazione e dell’infinito fosse universale. Furono lezioni determinanti nella formazione della giovane studiosa, che anche nei tempi successivi mantenne un interesse vivissimo per queste manifestazioni del pensiero e dello spirito, come si comprende dalle sue letture di quegli anni giovanili, delle quali si conserva traccia, per l’abitudine che aveva di datare e postillare, in maniera discreta, i propri libri.
La scelta della tesi di laurea (statuti comunali inediti di Bassano) fu diretta con sicurezza verso la storia medievale, allora insegnata da Pietro Torelli, professore di paleografia. Egli ha avuto il merito straordinario di saper valorizzare le doti intellettuali di Gina Fasoli, facendola applicare su tematiche che le erano congeniali, e che avrebbero caratterizzato tutta la sua attività di storico, con un taglio che era paleografico solo per quel tanto che era strettamente necessario (solo due pagine della dissertazione sono dedicate alla descrizione del codice), con una visione aperta su tutti i problemi che riguardavano la società medievale.
Quanto nella tesi di laurea sia dovuto all’insegnamento del Torelli, è difficile dire, ma parrebbe assai poco, perché nell’approccio ai temi c’è già tutto il piglio che avrebbe caratterizzato il resto della sua attività di storico, anche se negli anni più maturi avrebbe attutito le tinte, che, al confronto della leggerezza del tocco che distingue i suoi scritti, si potrebbero definire forti nei pochi punti della tesi cui accenna a Bassano, non come soggetto del suo studio, ma come sua terra natale. È veramente straordinario constatare che si è di fronte al lavoro di una ventenne, che si proponeva, attraverso lo studio degli statuti inediti, di verificare la struttura e il funzionamento del comune di Bassano, affrontando tematiche socio-economiche e giuridiche che andavano ben al di là di una tesi in "Paleografia e diplomatica". Quale fosse lo scopo del lavoro che aveva preparato è espresso nelle pagine introduttive con poche, ma esaurienti parole, con le quali rendeva conto dello stato della questione: ito sullo stato della questione - lo studio degli Statuti era appena in_cominciato: rimaneva ancora da vedere se essi fossero un’originale creazione della terra, o se si ispirassero, e in che misura, alla leg»slazione della città dominante, e se, infine, ci fosse in essi traccia di una più antica legislazione. Compiuto il lungo e faticoso lavoro di trascrizione del codice, modificato quanto nei lavori del Chiuppani non mi soddisfaceva pienamente, cercai di studiare come meglio potevo, gli statuti del mio Comune».
La tesi è strutturata in maniera esemplare: esame della bibliografia, ricostruzione dei precedenti storici con particolare riferimento alle vicende padovane e vicentine, analisi della società in cui sarebbe poi maturata la stesura degli statuti, esame degli statuti e loro confronto con quelli di Vicenza e di Padova per verificare le derivazioni, descrizione delle magistrature e degli uffici del comune. Emerge in molte parti la sua già vivace capacità di leggere fra le righe, di saper cogliere informazioni indirette, di considerare gli aspetti preterintenzionali di una fonte, come avrebbe poi teorizzato molti decenni dopo nella Guida allo studio della storia, su cui si sono preparate molte generazioni di studenti.
La conclusione della dissertazione di laurea apre verso nuovi interessi e nuove prospettive, nella consapevolezza che il lavoro di ogni ricercatore è una tessera offerta a tutti per completare il mosaico della scienza. Si protende infatti verso la storia della cultura locale, ricostruita, per quanto era possibile, nella constatazione dell’assenza di una cronaca cittadina, quando ci sarebbero state le potenzialità per realizzarla: «dobbiamo accontentarci delle poche parole che avaramente ci dicono qua e là Rolandino, Gerardo Maurisio, i Cortusi, Vincenzo Smereglo, e dei pochi documenti che i nostri vecchi ci hanno lasciato, e rintracciare attraverso agli uni ed alle altre la storia della nostra cara terra, sperando come centocinquanta anni fa sperava Giambattista Verci, che tanto l’amava, che un giorno esca dalla polvere degli archivi qualche documento nuovo che ci dia ragione».
La partenza del Torelli da Bologna ha significato il distacco dal maestro in un momento delicato della vita di qualsiasi giovane, quando deve decidere come impostare la propria esistenza professionale. Nel caso di una donna poi, nel 1926-27, la situazione era ovviamente assai più complessa, ma in effetti la sua partenza non ha determinato difficoltà insuperabili, soprattutto grazie al carattere forte di Gina Fasoli, che di fronte alla difficoltà della vita ha saputo sempre rimboccarsi le maniche e procedere per la propria strada, nel convincimento di aver fatto le scelte giuste.
Nel 1927 fu chiamato a coprire la cattedra di Storia medievale e moderna nell’Università di Bologna il veronese Luigi Simeoni, uno storico illustre, che Gina Fasoli ha sempre considerato il suo vero maestro, e con il quale ha intrattenuto un rapporto di consuetudine accademica che è durato un quarto di secolo.
Fra la laurea (1926) e il primo saggio pubblicato (1931) corrono cinque anni, anni basilari per la formazione di Gina Fasoli storico medievista e docente universitario: sono stati gli anni dell’apprendistato, in cui ha visto, stando dall’altra parte della cattedra, come si facevano le lezioni e come bisognava lavorare con gli studenti nei seminari; sono stati gli anni in cui, anche ascoltando il “professore” che correggeva le risposte errate degli studenti esaminati, si è impadronita di una larga parte della sua scienza. È questo uno degli insegnamenti più importanti che Gina Fasoli a sua volta ha trasmesso ai suoi scolari: non è solo studiando, ricercando, elaborando le informazioni che si acquistano le conoscenze, sono altrettanto importanti quelle che si trasmettono per via orale fra maestro e scolaro, perché nella discussione maestro e scolaro si stimolano vicendevolmente, ed emergono riflessioni che altrimenti non saprebbero emergere. In questa “pedagogia” della formazione accademica Gina Fasoli fu sicuramente una maestra eccezionale, sempre paziente, non solo con gli allievi diretti, ma anche con tutti coloro che a lei si sono rivolti, fuori o dentro l’Università, come del resto aveva fatto anche Luigi Simeoni, creando un gruppo di cui, in tempi diversi, oltre alla Fasoli ci furono Eugenio Duptrè e Paolo Lamma e nessuno di loro era stato suo scolaro diretto.
Cinque anni di duro lavoro nell’Archivio di Stato di Bologna, per capire la stratificazione della documentazione medievale, per orientarsi nel complicato meccanismo istituzionale del Comune, per muovere i primi passi interpretativi di una storia della quale scopriva risvolti mai prima indagati. Infatti il solido saggio sulla legislazione antimagnatizia a Bologna, pubblicato nel 1933, affrontava un tema che aveva trovato i suoi principali studiosi in Robert Davidsohn e Nicola Ottokar, che lo avevano affrontato in relazione alle vicende fiorentine, a loro volta studiate all’ombra di Dante, senza valutare però adeguatamente l’ampiezza del tema, cioè il fatto che si trattava di un episodio che scandiva le tappe delle trasformazioni politiche e sociali di tutti quei Comuni in cui si è attuato il governo popolare. Si trattava quindi di un tema legato alla storia dei Comuni italiani e peculiare ad essi, seguito con l’occhio attento all’evoluzione delle istituzioni, come la solida preparazione giuridica iniziata all’epoca di Torelli le consentiva. Si trattò da principio di chiarire le vicende legate al Comune di Bologna, senza perdere di vista quello che era successo altrove, ben presto consapevole che era necessario affrontare il problema in maniera sistematica, poiché quasi ovunque si erano presentati problemi analoghi. Proprio per queste ragioni sei anni dopo avrebbe esteso l’analisi a tutte le città dell’Italia centro-settentrionale.
Quei primi anni di lavoro scientifico, costruito sui documenti, sostenuto dalle discussioni col Simeoni, erano anche in un certo senso “allietati” dalle scorribande culturali svolte navigando su e giù per tutte le epoche per scrivere, con lo pseudonimo Gif, dei brevi articoli sui più svariati fatti storici per la «Festa», un periodico cattolico diffuso negli anni Trenta, palestra di giovani intellettuali. Si trattava di un vero e proprio lavoro remunerato, sia pur modestamente, che Gina Fasoli più che altro si divertiva a fare, ma svolto con grande onestà intellettuale e che senza dubbio ha avuto il grande merito di costringerla – se mai qualcosa o qualcuno, che non fosse lei stessa, potesse farlo – a scrivere in maniera accessibile ad un pubblico ampio di non specialisti, a chiarirsi quindi prima di tutto le idee, per poterle esprimere in maniera chiara, concisa ed esauriente, con un invidiabile stile di scrittura.
Mentre scavava nella storia comunale di Bologna, ha ripreso in mano i suoi studi iniziali, per preparare la pubblicazione degli statuti e per ricostruire le istituzioni pubbliche bassanesi nell’età che aveva seguito la fine della signoria ezzeliniana: un saggio poderoso che riprendeva, in maniera più concisa e serrata, le tematiche e i contenuti della tesi di laurea, con ulteriori approfondimenti. Questa volta al pubblico più ampio dei lettori dell’«Archivio Veneto» esponeva come, utilizzando gli statuti come fonte storica, in quanto espressione della volontà politica maturata in ambito urbano, si potevano mettere in luce le peculiarità di quella realtà politica, secondo schemi che cominciavano a non essere più quelli consueti della storiografia di allora: l’interesse cominciava ad indirizzarsi anche verso la vita quotidiana, verso elementi che avevano a che fare con discipline non strettamente attinenti la storia medievale, nell’obiettivo di comprendere la vita del passato nella sua complessità.
Furono anni di fervido lavoro, tutti dedicati ad affrontare tematiche originali nel panorama storiografico di allora – non lo furono più dopo, proprio grazie ai suoi studi – che riguardavano la storia dei Comuni: la legislazione antimagnatizia, i borghifranchi, le compagnie delle arti e delle armi. Lavorando negli archivi, prendendo confidenza con le fonti narrative, ma anche coltivando le buone letture, come testimonia ancora una volta la sua biblioteca, è andata maturando quella grande e raffinata cultura nel senso più ampio della parola che tutti le abbiamo invidiato e che rimpiangiamo di avere perduto.
Con gli studi dedicati all’analisi delle istituzioni del Comune di Bologna, ai grovigli politico-feudali delle signorie romagnole, e soprattutto con la pubblicazione, insieme a Pietro Sella, degli statuti di Bologna del 1288, aveva potuto conseguire nel 1940 la libera docenza in Storia medievale, che esercitò nell’Università di Bologna, dove poté entrare ufficialmente, anche se solo come assistente volontario, dopo la parentesi bellica, a partire dall’anno accademico 1947-48. Nel frattempo però un’altra geniale intuizione storiografica l’aveva portata ad affrontare un tema nuovissimo per quegli anni, quello del rapporto fra autonomie cittadine e territorio, attraverso la fondazione dei borghi franchi. Anche questo argomento veniva sfrontato con la stessa ottica della legislazione antimagnatizia, cioè nella convinzione che le città comunali, pur nella specificità di ciascuna, avevano dovuto affrontare problemi simili e avevano utilizzato strumenti analoghi per risolverli. Quello che di nuovo venne messo in luce, non fu soltanto l’aspetto politico del fenomeno, ma anche il rapporto con l’economia del territorio, la sua demografia, la struttura sociale, la proprietà della terra, i residui di signorie locali.
Luigi Simeoni andò fuori ruolo ma non in pensione nell’anno accademico 1945-45, e sulla cattedra bolognese di “storia medievale e moderna” fu chiamato Eugenio Dupreè, che per parte sua in un certo senso ebbe con Gina Fasoli un rapporto di colleganza piuttosto che di gerarchia accademica, in virtù del prestigio culturale che ormai cominciava ad esserle riconosciuto. Del resto, proprio negli anni più duri e tormentati della guerra, Gina Fasoli aveva lavorato ad un libro che l’aveva proiettata completamente fuori dalle tematiche e dalle metodologie che fino a quel momento aveva frequentato. Aveva scelto un aspetto particolare del secolo X, quello relativo alle incursioni degli Ungari in europa, affrontandolo da un punto di vista nuovo per quei tempi – ma non solo per quei tempi – cioè in un quadro che superava le barriere doganali e culturali dei singoli stati, per essere considerato nella sua specificità continentale.
L’alto medioevo era stato preferito all’età comunale e signorile, la storia cittadina e regionale aveva ceduto il passo all’Europa, statuti e cartolari comunali non servivano, le fonti agiografiche e narrative – quantitativamente molteplici e qualitativamente complesse – furono lo strumento metodologico principale per la ricostruzione storica. Questo grande affresco, portato a termine nonostante le comprensibili difficoltà materiali dei tempi, non foss’altro per il reperimento della bibliografia, ha il merito insuperato di aver ignorato i confini nazionali, nel quadro di un Europa che era tutta ugualmente esposta ai rischi e ai pericoli della barbarie, realizzato proprio in un momento storico che sottolineava la gracilità del vecchio continente di fronte ad una rinnovata barbarie.
Lo scavo approfondito effettuato nella grande annalistica e cronachistica italiana ed europea del secolo X, unito all’analisi delle fonti documentarie, principalmente dei diplomi regi, la cui pubblicazione era stata completata nel primo quarto del secolo e i diplomi imperiali, ha avuto il doppio effetto di avvicinare Gina Fasoli alle grandi tematiche connesse ad un periodo storico che costituisce un tornante fondamentale della storia d’Italia, i secoli X e XI, ancor più significativo, e questo è il secondo effetto, se si connette alla storia delle città italiane, che nel frangente delle incursioni ungare, dopo il primo smarrimento, avevano trovato il modo di riorganizzarsi urbanisticamente dotandosi di fortificazioni, per farsi trovare preparate di fronte ai pericoli ricorrenti.
Nacquero così, con coerenza di interessi e come naturale evoluzione del pensiero storiografico i Re d’Italia, pubblicati nel 1949, che si concludevano con lo stesso modo della tesi di laurea, rimpiangendo di non aver potuto chiarire aspetti e situazioni per assenza di fonti, come invece avrebbe desiderato per soddisfare la sua curiosità, quella curiosità che considerava la principale dote di uno storico e che cominciava già a trasmettere ai suoi scolari. Infatti, conclusasi la bufera della guerra, il Paese andava ricostruendosi e anche l’Università cercava di riorganizzare le fila della docenza: i concorsi erano fermi da anni, molti professori erano morti per cause belliche, altri avevano lasciato l’Italia o per sfuggire alle leggi razziali o per non fare il noto giuramento al fascismo. Gina Fasoli non mancò all’appuntamento prima con il concorso a cattedre (1950), svolgendo il suo magistero prima a Catania (fino al 1957), poi a Bologna fino alla pensione.
La Sicilia ha occupato un posto importante negli studi e nel cuore di Gina Fasoli: da una parte costituiva il riconoscimento della sua autonomia professionale, dall’altra le consentiva di assumere in prima persona la responsabilità nella preparazione dei giovani. Questa responsabilità Gina Fasoli l’ha sentita molto vigorosamente e molto vigorosamente l’ha esplicata, avvicinandosi alle esigenze degli studenti, prima di tutto preparandosi adeguatamente sulla storia della Sicilia, perché era convinta che fosse necessario tenere gli studenti vicini ai loro interessi personali. Per farlo Gina Fasoli era partita dagli strumenti metodologici di base, le fonti, e aveva verificato quanto fosse difficile destreggiarsi nella cronachistica siciliana, tanto che ritenne opportuno mettervi ordine, aprendo poi la strada a molti altri studiosi che hanno tratto vantaggio da quelle sue riflessioni.
Gli anni catanesi furono fervidi e importanti nella sua maturazione di storico, essendo venuta a contatto con un mondo culturale, sia quello contemporaneo, sia quello dell’epoca cui si riferivano i suoi studi, completamente diverso da quello che meglio conosceva. Questa esperienza le ha dato un arricchimento assai significativo. Fondamentale è stato l’incontro con Carmelina Naselli, che a Catania insegnava Storia delle tradizioni popolari, poiché nei suoi studi successivi si riscontra una ancor più convinta capacità di tenere in considerazione i dati antropologici, le leggende popolari, le consuetudini, le motivazioni storiche che hanno determinato modi di dire dialettali.
Il suo faticoso e periodico percorrere l’Italia da nord a sud e viceversa, con dei mezzi di trasporto la cui efficienza si può facilmente immaginare (erano i primi anni Cinquanta), non ha minimamente fiaccato la sua volontà di conoscere a fondo la storia della Sicilia e in particolare delle città siciliane, consentendole anche di accumulare informazioni e riflessioni sui più differenti aspetti della storia delle città italiane, che cominciavano ad essere un tema cui aveva rivolto l’attenzione con particolare insistenza, sia con gli studi su Bologna e Bassano, sia negli studi di più ampio respiro dedicati al secolo X, sia affrontando tematiche feudali di Terraferma che coinvolgevano Venezia. Un tema che affrontava in modo non consueto, con un’attenzione vivace per l’aspetto istituzionale, ma con un altrettanto vivace interesse per la storia della società, per la vita quotidiana, per quella totalità della Storia che nel suo pensiero si condensava nella «Storia come storia della civiltà».
Ma non furono questi i soli temi di studio di quegli anni: il bisogno di conoscere sempre più a fondo le vicende per capirle meglio la portò ad arretrare ancora di più i suoi studi, aprendo le ricerche sulla storia dei Longobardi, tema sul quale, nel corso dei decenni successivi, dimostrò di essere uno dei principali esperti in Italia, applicando quella che fu una caratteristica della sua storiografia per quello che concerne l’alto medioevo: se si voleva far progredire gli studi, non si poteva continuare a percorrere le stesse strade già battute da altri, quindi bisognava “inventare” nuove fonti, saper cogliere le indicazioni indirette, utilizzare i risultati di altri contesti disciplinari.
Frattanto a Bologna era morto, nel giugno del 1952, Luigi Simeoni che aveva salutato l’affermazione di Gina Fasoli nella competizione concorsuale in maniera sobria e lieve, ma puntuale («Vengo a rallegrarmi della Sua vittoria dovuta a un tenace, intelligente e onesto lavoro. Auguri cordiali. Suo Luigi Simeoni»), senza sottolineare il fatto, che invece era rilevante, che era la prima volta nella storia d’Italia che una cattedra universitaria di Storia medievale era coperta da una donna: era un vezzo per Gina Fasoli dire che era l’unico professore di storia che sapesse ricamare, ma in realtà portava sulle sue spalle di donna tutto il peso di dover sempre dimostrare, giorno dopo giorno, di meritare il traguardo raggiunto.
I primi anni Cinquanta videro la ricostruzione del Paese e il suo avviarsi verso uno sviluppo che si riscontra anche nella riorganizzazione degli studi storici, sia con la costituzione del «Centro Italiano di Studi sull’alto medioevo» di Spoleto, sia con la ripresa dei grandi congressi internazionali quinquennali di scienze storiche, di cui quello di Roma del 1955 segnò una tappa importante nello sviluppo degli studi, perché, fra le altre cose, prese vita il primo embrione della Commission Internationale pour l’histoire des Villes, un organismo europeo che aveva – e che ha – lo scopo di studiare la città europea da un punto di vista comparatistico.
Nella Commission, prima presieduta da Hermann Aubin (1955-58), poi da Hektor Ammann (1958-67) e da Philippe Wolff (1967-1986), furono presenti anche tre membri italiani, che, fino al 1980, si sono succeduti nelle persone di Ernesto Sestan, Eugenio Duprè, Carlo Guido Mor, Cinzio Violante e Gina Fasoli.
Gina Fasoli considerava molto positivamente il lavoro della Commission, così come gli incontri della Reichenai, l’altro organismo nel quale si trovò ad operare insieme ai colleghi e amici Raoul Manselli e Giovanni Tabacco. In quei contesti internazionali sapeva portare tutto il peso della sua ormai collaudata esperienza, ma con l’umiltà che derivava dalla consapevolezza e dall’intelligenza del proprio valore e che è la forza della scienza. Erano solo riunioni periodiche e di lavoro, ma agli scolari bolognesi parevano incontri mitici, quando al suo ritorno ne comunicava i contenuti scientifici,
Nel consiglio direttivo del Centro di studi sull’alto medioevo di Spoleto entrò nel 1966, dopo aver svolto due importanti lezioni: la prima alla Settimana sui Caratteri del secolo VII (1957) dedicata a quegli aspetti della vita economica e sociale italiana che le fonti – trattate come lei le sapeva trattare – le consentivano di trarre; la seconda su Castelli e signorie rurali (1965) introduceva nuovi elementi di interpretazione del feudalesimo italiano.
Nel 1957 cominciò anche il suo insegnamento a Bologna. L’Ateneo bolognese ha presto riconosciuto il significato innovativo della sua ricerca e l’impegno didattico, affidandole la prolusione per l’apertura dell’anno accademico 1960-61 (l’VIIIcLXXIII della sua storia): era la prima volta che nella più antica Università del mondo risuonava una voce femminile e lo faceva su un tema storiografico con il quale metteva ordine nell’interpretazione delle tematiche riguardanti la storiografia romantica, evidenziando come lo stesso Risorgimento italiano avesse cercato nel Medioevo il formarsi dell’identità nazionale.
All’Università di Bologna Gina Fasoli ha dato molto, non solo per l’attività didattica, nella quale riproponeva il modello che aveva raccolto dai suoi anni giovanili, dopo averlo sperimentato all’Università di Catania e averlo poi arricchito con quell’attenzione e disponibilità che sapeva dare a quegli studenti e scolari che dimostrassero di meritarla. Aveva anche saputo costruire dal nulla una biblioteca che oggi è, fra le biblioteche specializzate, una delle più fornite di Bologna. Aveva capito quanto fosse importante anche la conoscenza degli altri periodi storici, non solo per la comprensione del medioevo, ma perché, pur amandolo, sapeva che il ruolo della Storia nella formazione e nella conoscenza è indifferente alle sue specificazioni cronologiche. Aveva anche saputo mettere in pratica i principi metodologici interdisciplinari che nei suoi studi appaiono ad ogni pagina, dando vita, fin dal 1957, all’Istituto di Discipline Storiche e Giuridiche, senza però trincerarsi, come allora si usava, dietro la struttura monocattedra che le avrebbe consentito di regnare accademicamente fino alla pensione. Invece, quasi precorrendo di trent’anni la riforma dell’Università del 1980, aveva chiamato docenti di altre discipline storiche e di discipline che allora si chiamavano ausiliarie della storia, proprio in nome di quella visione totale della storia che praticava negli studi.
Gli avvenimenti legati al ‘68 sono stati affrontati da Gina Fasoli con fermezza e saggezza: se da una parte condannava le manifestazioni estremistiche, dall’altra sapeva cogliere i lati positivi di un movimento che, partendo dalle Università, ha tanto inciso sulla società italiana nei decenni successivi. Ancora oggi nell’ambiente universitario bolognese si ricorda il giorno in cui, in un’aula affollata da alcune centinaia di studenti che attendevano la sua lezione, alcuni tentarono di impedirle l’accesso alla cattedra: con un balzo insospettato in una persona che aveva già passato la sessantina saltò sulla cattedra e da quella specie di pulpito ha tenuto una delle sue più belle lezioni.
Dagli anni Sessanta in poi Gina Fasoli storico ha lavorato contemporaneamente su vari argomenti: le tematiche sono molteplici, si diradano le ricerche d’archivio di prima mano sui documenti, per lasciare il posto a ben più ardue attività di sintesi, in cui veniva messa a frutto tutta la sapienza della sua feconda maturità.
Non è necessario seguire puntualmente tutti i filoni di studio: se per gli studiosi dell’alto medioevo Gina Fasoli era una specialista di Ungari e di Longobardi, di feudi e di castelli – ma poi capace di fare grandi sintesi non solo storiche, ma anche più ampiamente culturali e antropologiche – per i basso medievisti era nota per essere specialista di comuni e di impero, di Lega lombarda e di Federico II, di Studia e di Università, per chi frequentava la storia dell’urbanistica dal versante degli studi di architettura era lo storico che sapeva tenere conto anche delle strutture fisiche delle città.
Uno degli elementi che caratterizza gli studi di Gina Fasoli sulla città è proprio la sua attenzione per gli aspetti topografici e urbanistici. Non era così scontato, e non lo è tuttora, che uno storico medievista avesse presenti anche le tematiche connesse alle strutture materiali. Invece per Gina Fasoli la fotografia aerea di una città, che ritraeva il volto di un organismo vivo e vitale da una distanza che era ad un tempo reale e misurabile ma anche simbolica e metafisica, era una vera e propria fonte storica, capace di dare informazioni a chi avesse saputo cercarle e trovarle. Non si possono dimenticare certi seminari nei quali spiegava che cosa significassero i circuiti di strade parallele situati all’interno di una struttura urbana, quali storie raccontassero di fossati colmati e di terrapieni abbattuti, di come le necessarie trasformazioni che un organismo vivente portava con sé non fossero che una specie di libro nel quale era scritta la storia della città.
Fu proprio nell’ambito della storia urbana che sentì molto forte la funzione dello storico nella vita civile: il dovere che aveva lo studioso di interpretare le trasformazioni cittadine e di far conoscere i risultati delle proprie ricerche a chi era chiamato a fare scelte politiche di sviluppo, se voleva che quelle scelte fossero consapevoli, basate sulla conoscenza di un organismo che aveva avuto il suo maggior sviluppo in età medievale, secondo una normativa precisa, con la quale bisognava far i conti se si voleva continuare a vivere oggi in una città che era cresciuta in un’altra epoca con altre regole.
Anche la storia urbanistica di Bologna nel medioevo è legata al nome di Gina Fasoli. Sono state decisive le indicazioni relative al significato urbanistico del ciclo santorale delle “Quattro Croci” che delimitavano la città tardoantica, così come l’attribuzione della cinta muraria di selenite all’epoca di Teoderico e la ricostruzione delle successive fasi di urbanizzazione in età longobarda in base alla toponomastica e alle dedicazioni tipiche. Infatti quel suo saggio ha messo in moto gli studi di storia urbanistica bolognese che languivano da molti anni, fermi al Finelli (1927) se non addirittura al Gozzadini (1868). L’aver messo in relazione la costruzione della prima e più antica cerchia muraria con le condizioni politico-economiche del regno di Teoderico, con la politica di “attenzione” di quel re per le città e i loro monumenti antichi, per il decoro e la fortificazione delle città, fu una scelta determinata da una metodologia investigativa che doveva fare i conti con la totale assenza di altre fonti e che giustamente privilegiava l’inquadramento della storia di Bologna nel più ampio contesto della penisola. Dopo quel saggio, era il 1966, non sono ancora state rinvenute altre fonti che confortino quell’ipotesi, ma c’è sempre la possibilità – come lei stessa aveva auspicato ai tempi della tesi di laurea – che dagli archivi e dagli scavi archeologici esca qualche cosa «che ci dia ragione».
Intonata alla sua disponibilità nei confronti di tutti coloro che – persone o istituzioni - avessero manifestato la volontà di migliorare se stessi attraverso lo studio e la ricerca, è stata l’attività di promozione di studi che ha esercitato anche a livello locale, sia a Bologna e nell’Emilia-Romagna, sia a Bassano. Ha promosso e diretto collane, ha presieduto istituzioni culturali, ha promosso mostre, ha incoraggiato le metodologie di ricerca più innovative, dando sempre a tutti i suoi collaboratori la serenità di essere coperti dalle sue conoscenze e dal suo rigore.
Nel maggio del 1975 l’ultima lezione, cui non ha voluto dare la risonanza che invece avrebbe meritato. Preferì andarsene in sordina, ad attendere ai mille impegni scientifici che ancor più di prima l’aspettavano. E nel novembre del 1980 il calendario della vita la mise fuori dai ruoli dell’Università, ma solo per pochi mesi, perché nel giugno del 1981 già perveniva alla facoltà di Magistero dell’Università di Bologna, che lo aveva richiesto, il decreto con il quale il Presidente della Repubblica la nominava professore emerito.
E non mancarono i riconoscimenti anche al di fuori del mondo accademico: nel 1987 il prestigioso premio Archiginnasio d’oro, che il Comune di Bologna destina a chi ha dato lustro alla città, nel 1980 il premio per la cultura della città di Bassano, nel 1989 l’Osterreichischer Arbeitskrais für Stadtgeschichte di Linz.
Negli ultimi anni della sua fervida vita, ha intensificato gli studi su Bassano, ma non fu solo un ritorno alle radici. Una maggior disponibilità di tempo le ha sì consentito di avviare e concludere delle iniziative poderose sulla storia della città, quali la Storia e l’Atlante, ma è anche vero che la sua partecipazione alla vita culturale locale aveva consentito di raccogliere attorno alle sue iniziative un gruppo di studiosi qualificato e allo stesso tempo disposto a recepire i suoi insegnamenti, anche se da anni era ormai lontana dalla cattedra. L’intensificarsi degli interventi culturali a Bassano negli ultimi decenni è dovuto proprio a questa sua presenza di esempio, di stimolo, di formazione che ha influito profondamente sulla vita culturale locale, mantenendola tesa verso traguardi di sempre più alto profilo.


Francesca Bocchi



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